[Editoriale del numero 3/2009]
Il multipolarismo: uno scenario in via di consolidamento
Molteplici fattori, tra i quali principalmente: a) l’incapacità statunitense di gestire la fase post-bipolare determinatasi dopo il collasso sovietico; b) la riaffermazione della Russia operata da Putin e consolidata da Medvedev; c) la crescita economica e il peso politico di due nazioni-continente quali sono la Cina e l’India; d) lo svincolamento di alcuni importanti paesi dell’America meridionali dalla tutela di Washington, hanno posto le precondizioni per la costituzione di un sistema multipolare.
Il nuovo scenario geopolitico, dopo una prima fase di gestazione, peraltro continuamente minata da Washington, Londra e dalle oligarchie europee che politicamente fanno capo a Sarkozy ed alla Merkel, ora risulta essere in via di consolidamento, grazie alle continue attività di collaborazione che intercorrono tra Mosca, Beijing e Nuova Delhi in riferimento a grandi temi cruciali, tra cui: l’approvvigionamento e la distribuzione di risorse energetiche, la sicurezza continentale, le soluzioni in via di adozione relativamente alla crisi economico-finanziaria, il rafforzamento di alcune istituzioni a valenza multiregionale, se non continentale, come ad esempio l’organizzazione per la cooperazione di Shanghai, le realistiche prese di posizione riguardo a varie questione imposte dagli USA nel dibattito internazionale, da quella sul nucleare iraniano a quella sui diritti umani in Cina, in Russia, in Iran ed ultimamente anche in India (1). Oltre al processo di integrazione eurasiatico, occorre dire che il nuovo quadro internazionale va ulteriormente consolidandosi anche per effetto delle intese strategiche che alcuni paesi eurasiatici (Russia, Iran e Cina) hanno raggiunto con importanti nazioni sudamericane quali il Brasile, il Venezuela e l’Argentina, in campo economico ed in alcuni casi anche militare.
Alla luce delle considerazioni sopra esposte, i caratteri che contraddistinguono il nuovo quadro geopolitico sembrano essere essenzialmente due:
a) l’uno – relativo alla costituzione ed all’esistenza stessa del nuovo ordine internazionale – appare emergere dalla sinergia di intenti che animano i maggiori paesi eurasiatici e quelli dell’America indiolatina. I desiderata delle élite dirigenti di Mosca, di Beijing, di Nuova Delhi, di Teheran, e recentemente anche di Ankara (2) convergono con quelli di Brasilia, Caracas e Buenos Aires e tendono ad attualizzarsi in pratiche geopolitiche che prevedono, attraverso relazioni strategiche, il declassamento degli USA da potenza mondiale a potenza regionale. Al termine del primo decennio del presente secolo, l’Eurasia e l’America indiolatina (3) appaiono costituire i pilastri su cui poggia l’attuale sistema internazionale. Sull’integrazione interna, o meglio, sul grado di coesione interno delle due grandi masse continentali, si giocherà, molto probabilmente, nel medio e lungo periodo l’intera scommessa multipolare.
b) l’altro carattere, che a nostro avviso concernerebbe la natura del nuovo contesto geopolitico, sembra consistere nell’articolazione continentalistica con cui esso tende a manifestarsi. (4)
A fronte del consolidamento di tale nuovo scenario, occorre però tenere presente che il sistema occidentale a guida nordamericana, benché in fase declinate, o forse proprio perché in fase declinante, pare accentuare, nonostante la retorica della nuova amministrazione, la proprio indole espansionista ed aggressiva. Ciò non solo alimenterà gli attuali contrasti, ma ne genererà di ulteriori, i quali, verosimilmente, si scaricheranno nelle aree geopoliticamente e geostrategicamente più fragili. L’Africa è una di queste.
La fragilità dell’Africa e la penetrazione statunitense nell’emisfero sud
In questo quadro di riferimento, altamente gravido di tensioni giacché, come evidenziato più sopra, determinato dalla contrapposizione tra il nuovo sistema multipolare in via di accelerata definizione e quello centrato sugli USA, l’Africa stenta a trovare una sua chiara posizione, a concepirsi, cioè, come una entità geopolitica unitaria, seppur molto complessa, stante le profonde e varie disomogeneità culturali, etniche, confessionali, climatiche, economiche e sociali che l’intero continente presenta (5).
È, tuttavia, fin dal lontano 1919 (dunque in un tutt’altro contesto geopolitico, ma anch’esso in fase di transizione, vale la pena sottolinearlo), con la conferenza di Parigi, che gli Africani esprimono la necessità di unificare il proprio continente (6). Precedentemente, il movimento panafricanista, sorto negli USA e nelle Antille alla fine del XIX secolo sulla base delle idee del meticcio americano William Edward Burghardt Du Bois, cantore del movimento “pan-negro”, e del giamaicano Marcus Garvey, ideatore della parola d’ordine “ritorno all’Africa” e del cosiddetto “sionismo nero”, verteva principalmente sull’unità culturale dei popoli africani. Sul piano prettamente politico il movimento panafricanista contribuì, durante il processo di decolonizzazione, alla creazione dell’ “Organizzazione dell’unità africana”, oggi nota come “Unione africana”.
Ai giorni nostri, dopo circa un secolo di vertici e conferenze inconcludenti, dedicate all’unità (o all’integrazione) continentale (peraltro variamente intesa e teorizzata), gli ostacoli che si frappongono alla sua realizzazione sembrano risiedere nelle solite irrisolte questioni storico-politiche che comprendono, tra le altre, i classici problemi relativi alla mancanza di infrastrutture, alla frammentazione politica in stati modulati secondo il paradigma occidentale (7), all’incapacità delle classi dirigenti locali di gestire i vari tribalismi in una logica unitaria e procontinentale, o perlomeno regionale, all’eredità coloniale e, soprattutto, agli appetiti occidentali, grandemente aumentati in questi ultimi anni, in virtù della sinergica politica africana attuata dagli USA e dal suo alleato regionale, Israele (8). Una lettura veloce e superficiale degli eventi africani indurrebbe l’analista ad aggiungere agli appetiti occidentali anche quelli cinesi, russi e indiani. A tal riguardo, bisogna però osservare che gli interessi asiatici, o meglio, eurasiatici in Africa hanno una valenza particolare della quale, nel lungo periodo, ne beneficerebbe proprio l’Africa nel suo insieme, giacché ne agevolerebbe l’inserimento nel nuovo sistema multipolare, e l’ancorerebbe, pertanto, geopoliticamente, alla massa continentale eurasiatica. L’Africa, in siffatto futuro scenario, costituirebbe il terzo polo dello spazio euro-afro-asiatico.
Washington, nell’ultimo anno dell’amministrazione Bush, impantanata nei conflitti mediorientali (Iraq e Afghanistan), ostacolata dalla Russia e dalla Cina nella sua marcia di avvicinamento verso le repubbliche centroasiatiche, persa, insieme a Londra ed all’Unione Europea, la partita nella disputa russo-ucraina sul gas, uscita a testa bassa dall’avventura georgiana (agosto 2008), mal digerita l’autonomia turca sulla progettazione di South Stream (9), ha intensificato la sua politica estera nel sud del pianeta, rispettivamente nell’America meridionale e in Africa.
Nel corso del biennio 2007-2008 gli USA hanno tentano di disarticolare il BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), il nuovo asse geoeconomico stabilitosi tra l’Eurasia e l’America indiolatina, e cercato di minare le intese volte all’integrazione sudamericana, facendo pressioni principalmente sul Brasile e sul Venezuela. È in tale strategia, che possiamo definire “strategia per il recupero del controllo dell’ex-cortile di casa”, che rientrano, ad esempio, tanto la riesumazione della Quarta Flotta, quanto episodi come quello dei moti secessionisti nella regione della mezzaluna boliviana (dipartimenti di Tarija, Beni, Pando e Santa Cruz), orchestrati, secondo diversi analisti sudamericani, tra cui il brasiliano Moniz Bandeira, proprio da Washington. Tale rinnovato interesse statunitense per il controllo dell’America meridionale, iniziato dalla precedente amministrazione repubblicana, è parimenti perseguito da quella attuale, guidata dal democratico Obama, come dimostrato da due casi emblematici: quello dell’intromissione USA nel colpo di stato in Honduras e, soprattutto, quello relativo all’istallazione di basi militari in Colombia.
Riguardo alla corrente penetrazione statunitense in Africa, essa per gli USA è un passaggio obbligato dovuto a tre ragioni principali.
Una è relativa alla questione energetica. Secondo uno studio commissionato nel 2000 dal National Intelligence Council ad alcuni esperti, gli USA si aspettano di poter usufruire per il 2015 di almeno il 25% di petrolio proveniente dall’Africa (10). La ricerca e il controllo di fonti energetiche in Africa rispondono a due esigenze considerate prioritarie da Washington e dai gruppi petrolieri che ne indirizzano e sostengono la politica energetica (11). La prima esigenza deriva ovviamente dalle strategie volte a ricercare fonti di approvvigionamento energetico, diversificate ed alternative a quelle mediorientali; la seconda, invece, riguarda la protezione del ruolo egemone, che gli USA hanno acquisito durante il scorso secolo, in riferimento al controllo ed alla distribuzione delle risorse energetiche mondiali. Tale ruolo attraversa attualmente una fase molto critica, a causa delle recenti e sinergiche politiche attuate da Russia, Cina e da alcuni paesi sudamericani nel settore energetico. L’antagonista africano degli USA è, come noto, la Cina. La Repubblica Popolare Cinese, nell’ultimo decennio ha rafforzato ed implementato le relazioni e il gettito di investimenti, in particolare in infrastrutture, nel continente africano, proseguendo peraltro una politica avviata già nel corso della Guerra fredda. La Cina non solo è interessata al petrolio africano, ma anche al gas (12) e a materiali considerati strategici per il suo sviluppo, come il carbone, il cobalto e il rame. Sul fronte energetico, un esempio, importante per le conseguenze sui rapporti tra le potenze Cina e USA, è fornito dal fondamentale apporto cinese dato al Sudan per l’esportazione del petrolio. Il Sudan, come noto, grazie all’aiuto cinese esporta petrolio fin dal 1999; ciò ha posto Khartum alle “particolari” attenzioni e cure di Washington. Recentemente (27 ottobre 2009), la Casa Bianca ha rinnovato formalmente le sanzioni economiche al Sudan per la questione dei diritti delle popolazioni del Darfur.
L’altra ragione per la quale la politica africana costituisce una delle priorità statunitensi del prossimo decennio è d’ordine geopolitico e strategico. Nel pieno dell’attuale crisi economico-finanziaria, Washington dovrebbe, in quanto grande attore globale, dirigere i propri sforzi nel mantenimento delle sue posizioni nello scacchiere globale, pena, nel migliore dei casi, un celere ridimensionamento a media potenza regionale, o, nel peggiore, un disastroso collasso, difficile da superare in tempi brevi. Invece, in linea con la tradizionale geopolitica espansionista che ne caratterizza da sempre i rapporti con le altre parti del pianeta, Washington ha scelto l’Africa quale ampio spazio di manovra, da cui rilanciare il proprio peso militare sul piano globale al fine di contendere alle potenze asiatiche il primato mondiale. In tale avventurosa iniziativa Washington coinvolgerà ovviamente l’intera Europa. La nuova politica statunitense in Africa è dovuta al fatto che gli USA trovano chiuse due delle principali vie precedentemente scelte per accedere allo spazio eurasiatico: l’Europa centrorientale e il Vicino e Medio Oriente. La prima via, dopo la ventata delle vittoriose rivoluzioni colorate che avevano attratto nello spazio geopolitico egemonizzato da Washington i paesi dell’estero vicino russo (la cosiddetta Nuova Europa), sembra per ora una strada faticosa da proseguire, giacché Mosca ha alzato il livello di guardia. Indicative, a tal proposito, le difficoltà incontrate dagli USA nella questione dello scudo spaziale. La seconda via è quella delineata, ormai da diversi anni, dalla dottrina cosiddetta del Grande Medio Oriente: controllo totale del mar Mediterraneo, eliminazione dell’Iraq, contenimento dell’Iran, occupazione militare dell’Afghanistan, penetrazione nelle repubbliche centroasiatiche. L’applicazione di questa dottrina geopolitica, tuttavia, non ha prodotto quei risultati che il Pentagono e Washington si aspettavano in tempi ragionevolmente brevi, ma al contrario si è rivelata negativa a causa del perdurante e logorante conflitto afghano e dell’irrisolta questione irachena e, soprattutto, della politica eurasiatica di Mosca, volta a recuperare prestigio e importanza nello spazio centroasiatico.
La terza ragione, infine, è d’ordine preventivo. Essa è collegata alla politica che attualmente gli USA conducono nell’emisfero meridionale del pianeta, al fine di inficiare l’asse sud-sud, faticosamente in corso di definizione tra molte nazioni africane e sudamericane. I principali capi di stato dell’America indiolatina e dell’Africa hanno recentemente riconfermato, nel settembre 2009, durante il vertice di Isla Margarita (Venezuela), la volontà di proseguire nel progetto strategico di “cooperazione sud-sud” tra Africa e America meridionale avviato nel dicembre del 2006 in Nigeria, a Abuja.
Gli strumenti di penetrazione che Washington ha adottato per controllare lo spazio africano sono di tre ordini: d’ordine militare, attraverso l’AFRICOM (13), cioè il Comando militare degli Stati Uniti per l’Africa, creato nel 2007 ed attivato l’anno successivo; d’ordine economico-finanziario (si veda il caso delle sanzioni al Sudan e l’intromissione del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale nei rapporti tra la Repubblica Democratica del Congo e la Cina) (14); ed infine uno relativo alla strategia di comunicazione di cui i discorsi di Obama, rispettivamente quelli ormai considerati “storici” del Cairo e di Accra, costituiscono un valido esempio. Sul piano militare, è importante osservare che la penetrazione statunitense pare privilegiare, quale testa di ponte per neutralizzare il Sudan e la Repubblica democratica del Congo, l’area costituita da Tanzania, Burundi, Kenya, Uganda e Ruanda. Va sottolineato che il totale controllo militare dell’Africa orientale costituisce un importante tassello nella strategia statunitense per l’egemonia dell’Oceano indiano.
Le direttrici geopolitiche dell’Africa per il XXI secolo
Nonostante le difficoltà che ostacolano oggi la sua unificazione (o integrazione) geopolitica, l’Africa, al fine di salvaguardare le proprie risorse e di mantenersi al di fuori delle dispute tra USA, Cina e, molto probabilmente, Russia e India – dispute che si risolverebbero proprio sul suo territorio – ha la necessità di organizzarsi, almeno regionalmente, lungo tre direttrici principali che fanno perno rispettivamente sul bacino mediterraneo, sull’Oceano Indiano e su quello Atlantico.
L’attivazione di politiche di cooperazione economica e strategica, almeno per quanto riguarda la sicurezza, tra i Paesi nordafricani e l’Europa, da una parte e quella analoga con l’India (a tal proposito si fa riferimento alla Dichiarazione di Delhi, stilata nel corso del Summit 2008 India-Africa) (15) dall’altra, oltre a rendere coese le regioni africane coinvolte, predisporrebbero le basi per una futura potenziale unificazione continentale articolata su poli regionali ed inserita nel un più ampio contesto euro-afro-asiatico. Parimenti, la direttrice atlantica, vale a dire il perseguimento di una cooperazione strategica sud-sud tra l’Africa e l’America indiolatina, favorirebbe, in questo caso, la coesione delle regioni dell’Africa occidentale, e concorrerebbe all’unificazione del continente. In particolare, lo sviluppo della direttrice atlantica rafforzerebbe il peso africano nei confronti dell’Asia , della Cina in primo luogo.
L’auspicabile integrazione dell’Africa – realisticamente possibile solo se strutturata su poli regionali – richiama alla mente lo sviluppo storico, antecedente il periodo coloniale, delle formazioni politiche autenticamente africane, le quali, giova ricordarlo, si sono succedute proprio su base regionale (16).
1. Relativamente all’India ed alla violazione dei diritti umani, in particolare quelli afferenti la religione, si veda l’India Chapter dell’Annual Report of the United States Commission on International Religious Freedom, (http://www.uscirf.gov/) e l’interessante articolo critico di M. V. Kamath, US must stop meddling in India’s internal problems, “The Free Press Journal”, 3 settembre 2009 (http://www.freepressjournal.in/), che denuncia la strumentalizzazione operata da Washington in riferimento ai diritti umani ed alle libertà civili per evidenti scopi geopolitici.
2. Riguardo all’erosione dei rapporti tra la Turchia guidata da Erdogan e l’Occidente, si veda Soner Cagaptay, Is Turkey Leaving the West?, www.foreignaffairs.com, 26/10/2009 ed il saggio di Morton Abramowitz e Henri J. Barkey, Turkey’s Transformers, Foreign Affairs, novembre/dicembre 2009.
3. Recentemente (17-18 ottobre 2009) i 13 paesi sudamericani aderenti all’ALBA hanno firmato il trattato costitutivo del sistema unificato di compensazione nazionale (sucre), il cui obiettivo è la sostituzione del dollaro negli scambi commerciali già a partire dal 2010.
4. Tiberio Graziani, Il tempo dei continenti e la destabilizzazione del pianeta, Eurasia. Rivista di studi geopolitici, n. 2, 2008.
5. Per una rassegna delle questioni che impediscono l’integrazione africana e sui fattori di disomogeneità si rimanda a Géopolitique de l’Afrique et du Moyen-Orient, opera coordinata da Vincent Thébault, Nathan, Paris 2006, pp.69-220. Sui fattori delle origini del cosiddetto sottosviluppo africano e sull’interpretazione del “dinamismo storico” dell’Africa, si veda Claudio Moffa, L’Africa alla periferia della storia. Conflittualità interetnica, sviluppo storico, sottosviluppo, Aracne Editrice, Roma 2006.
6. Diciannove anni prima, nel luglio del 1900, aveva avuto luogo a Londra un primo convegno panafricano, dedicato – però – all’unità degli africani ed ai loro discendenti nelle Americhe.
7. L’Africa è suddivisa in 53 stati e in due enclave spagnole (Ceuta e Melilla), cui occorre aggiungere gli autoproclamati stati di El Ayun (Sahara occidentale) e di Hargeisa (Somaliland).
8. Per la recente politica israeliana in Africa si legga: Nicolas Michel, Le grand retour de Israël en Afrique, Jeune Afrique (http://www.jeuneafrique.com ), 3/9/2009; Philippe Perdrix, F. Pompey, P.F. Naudé, Israël et l’Afrique: le business avant tout, Jeune Afrique (http://www.jeuneafrique.com ), 3/9/2009; René Naba, Israël en Afrique, à la quête d’un paradis perdu, http://www.renenaba.com/ , 10/10/2009.
9. Il 6 agosto 2009, Putin e Erdogan hanno siglato un accordo che prevede il passaggio nelle acque territoriali turche del gasdotto russo, antagonista del progetto Nabucco, sostenuto dagli USA e dall’Unione Europea.
10. Lo studio citato, Global Trends 2015. A dialogue about the Future with Nongovernment Experts, dicembre 2000, è reperibile presso il sito governativo dell’Office of the Director of National Intelligence, www.dni.gov/
11. African Oil: A Priority for U. S. National Security And African Development, Proceedings of an Institute Symposium, The Institute for Advanced Strategic and Political Studies, Research Papers in Strategy, maggio 2002, 14. Il documento è reperibile nel sito: http://www.israeleconomy.org/.
12. “Il continente africano possiede enormi riserve di gas naturale che sono stimate a 14,56 trilioni di metri cubi, ovvero il 7,9% del totale mondiale. Le riserve accertate in Nigeria ed Algeria (5,22 e 4,5 trilioni di metri cubi rispettivamente) sono inferiori a quelle di Russia (43,3 trilioni di metri cubi), Iran (29,61), Qatar (25,46), Turkmenistan (7,94), Arabia Saudita (7,57) ed Emirati Arabi Uniti (6.43), ma superiori a quelle della Norvegia (2,91), che è uno dei paesi-chiave nell’esportazione di gas. Tuttavia, i livelli di produzione e consumo di gas naturale in Africa sono abbastanza bassi. La produzione di gas nel 2008 è stata di 214,8 bilioni di metri cubi, ovvero il 7% del totale mondiale (un incremento di 4,85 rispetto al 2007). Il Sudamerica è stato l’unico continente a produrre meno gas naturale nel medesimo anno. Il consumo di gas naturale nel 2008 in Africa è stato di 94,9 bilioni di metri cubi ovvero il 3,1% del totale mondiale (un 6,1% di crescita rispetto al 2007), che è il livello più basso su scala mondiale. Oltre il 50% del gas naturale prodotto in Africa – 115,6 bilioni di metri cubi – viene esportato, per lo più come gas naturale liquefatto (62,18 bilioni di metri cubi). La quota dei paesi africani (Algeria, Nigeria, Egitto, Libia, Guinea Equatoriale e Mozambico) nella fornitura globale di gas è del 14,2%, ma lo stesso livello di gas naturale liquefatto è molto più alto – 27,5%.”, Roman Tomberg, Le prospettive di Gazprom in Africa, www.eurasia-rivista.org, 16 ottobre 2009.
13. Il processo di militarizzazione dell’Africa da parte di Washington si è ultimamente intensificato. A tal proposito si legga Kevin J. Kelley, Uganda: grande esercitazione militare degli USA nella regione settentrionale, www.eurasia-rivista.org, 14 ottobre 2009.
14. Renaud Viviene et alii, L’ipocrita ingerenza del FMI e della Banca mondiale nella Repubblica democratica del Congo, www.eurasia-rivista.org , 19 ottobre 2009.
15. Il testo della Delhi Declaration è reperibili nel sito: http://www.africa-union.org.
16. A proposito del carattere “regionalista” dell’Africa, osserva l’africanista francese Bernard Lugan nell’introduzione alla sua ponderosa Histoire de l’Afrique, Ellipses, Parigi 2009, p.3.: « Le longue déroule de l’histoire du continent africain est rythmé par plusieurs mutations ou rupture qui se produisirent selon une périodisation différente de celle de l’histoire européenne. De plus, alors qu’en Europe les grand phénomènes historiques ou civilisationnels furent continentaux, dans les Afriques, ils eurent des conséquences régionales, sauf dans le cas de la colonisation ».